Sui Sibillini sono molti i luoghi segnati dalla leggenda delle fate, tra cui il più rinomato è il Sentiero delle Fate, e a Pretare, ancora oggi, una rappresentazione conserva e rievoca la memoria della presenza di queste creature. Le fate, nella tradizione popolare, sono descritte come giovani donne di bell’aspetto, vestite con caste gonne da cui spuntavano zampe di capra. Il calpestio dei loro passi ricordava il rumore degli zoccoli degli animali sulle pietraie dei monti. La pastorizia dunque, appare un elemento fondante del mito delle fate come dimostra anche la loro natura semiferina, con piede caprino.
La pastorizia, infatti, è uno dei principali mezzi di sostentamento delle popolazioni di montagna dell’alto Appennino centrale e dei Sibillini in particolare, per quanto possiamo dedurre dalle fonti, fin da epoca preromana, assumendo caratteri di assoluta certezza almeno dall’età romana. L’economia del saltus si affianca alla transumanza per i caratteri geografici delle regioni centrali che non dispongono di sufficienti pascoli estivi e per la prevalenza di ovicaprini.
Lo spostamento dalle pianure del Lazio e dalla fascia costiera adriatica verso gli Appennini diventa quindi fondamentale, come fondamentali divengono i valichi, i punti obbligati di passaggio con pagamento di pedaggio, gli itinerari di commercio del sale necessario alle greggi e al formaggio e la rete di sentieri di crinale, sicuri fondovalle, calles, viae e tratturi. Si struttura così, tramite questa rete, probabilmente almeno dalla protostoria e per certo dall’età del Ferro, un paesaggio costituito da punti di riferimento quali vie, luoghi di sosta e di riparo, luoghi di culto e di venerazione, costituiti da picchi, grotte, sorgenti, alture dominanti. Il monte Sibilla, il Monte Vettore e il Monte Porche, la via Salaria, le foci di Montemonaco, il lago di Pilato, le gole dell’Infernaccio e molto altro appartengono a questo universo geografico e simbolico, in cui si colloca il sentiero delle Fate.
I luoghi evocati dalla tradizione come scenario dell’apparizione delle fate collegano, dalle pendici alla cresta, i due monti più suggestivi e simbolicamente potenti dell’arco dei Sibillini: il Monte Sibilla e il Vettore. I luoghi più ricordati nella narrazione geografica del mito sono la grotta della Sibilla, il lago di Pilato e la faglia del Monte Vettore.
La grotta della Sibilla, secondo la tradizione, era la dimora delle fate da cui uscivano solo la notte per ritirarsi in montagna prima del sorgere delle luci dell’aurora, pena l’esclusione dal regno incantato della Sibilla. La loro origine è dunque legata indissolubilmente al mito della Sibilla e dei suoi vaticini, per sentire i quali pellegrini, mistici e letterati giungevano da tutta Europa alla ricerca della sua residenza, fin dai tempi più remoti della storia.
Il mito della Sibilla, la profetessa che “con voce disadorna dice cose che non fanno ridere”, spesso predicendo catastrofi naturali, e della sua dimora, una grotta posta sul crinale del Monte Sibilla, è noto nell’area almeno a partire dall’epoca romana fino ad arrivare ai giorni nostri, subendo attraverso i secoli svariate reinterpretazioni che hanno attribuito all’impianto originario nuovi significati, soprattutto in ambito esoterico (Tea Fonzi, La Sibilla dell’Appennino, una risorsa dimenticata, Il Capitale Culturale, 11: 2015).
La figura della Sibilla è già radicata nella cultura greca, come profetessa ispirata dal dio. Differentemente dalla Pizia, che aveva un ruolo istituito e istituzionale all’interno del tempio di Apollo a Delfi, la Sibilla è un personaggio dai contorni non nettamente definiti, confinata alla sfera del mito e senza sede oracolare fissa, comparendo all’interno di diverse tradizioni religiose con ruoli, finalità e origini differenti.
La Sibilla, similmente alla Pizia, è una profetessa estatica, che però non dà i suoi responsi solennemente, ma in stato di furor, un accesso di pazzia furiosa simile all’epilessia. Una donna, quindi, si fa tramite della voce del dio, che però fornisce responsi oscuri, perché questo tipo di sapienza non prevede la chiarezza della parola, ma anzi la parola è spesso come un rantolo, come se un demone parlasse con la voce della profetessa. Per questo la divinazione naturale necessita di un tramite, di un’interpretazione. Il vaticinio, quindi, si fa scrittura, su foglie o su sortes, che vengono lanciate ed estratte, e la parola diviene il tramite razionale fra la terra e il cielo.
I Libri Sybillini, in età romana, raccolgono profezie tradizionalmente consegnate al re etrusco Tarquinio, ma appaiono di fatto riscritti dopo la perdita per un incendio nell’83 a.C. Sono redatti in versi acrostici e possono essere consultati solo da un collegio di sacerdoti, i Quindecemviri sacris faciundis, e unicamente su ordine del Senato.
Il profetismo estatico a cui afferisce la Sibilla, secondo Dodds, appartiene al corredo originario delle idee indoeuropee; si lega all’assenza di sicurezza in una civiltà fortemente immersa in un mondo ostile e alla necessità di allontanare il male. Per Cicerone, La forza della terra ispirava la Pizia a Delfi, la forza della sua stessa indole incitava la Sibilla, che sottolinea la natura dell’oracolo come emanazione di potenze naturali eventualmente anche sotterrane E. Dodds, I Greci e l’irrazionale, Rizzoli: 2009).
La Sibilla è una fino all’epoca ellenistica, quando, non avendo una sede oracolare fissa, le profetesse diventano numerose, acquistando diverse sedi. Il nome “sibilla” diventa allora un termine generico al quale spesso si aggiunge un altro nome.
A mettere ordine nell’ingarbugliata tradizione sibillina è Marco Terenzio Varrone, nelle sue Antiquitates Rerum divinarum (47 d.C.), definendo un primo canone di dieci sibille, queste sono Persica, Libica, Delfica, Cimmeria, Eritrea, Samia, Cumana, Ellespontica, Frigia e Tiburtina.
Le profetesse, riabilitate dai Padri della Chiesa Lattanzio e Agostino di Ippona, divengono annunciatrici della nascita del Salvatore; le profezie delle sibille pagane vengono da qui in poi integrate da nuove interpretazioni, spesso in chiave cristiana.
Per tutto il Medioevo vengono rappresentate e promosse solo tre delle dieci sibille canoniche, quelle più efficaci nei sermoni: la sibilla Eritrea, la Cumana e la Tiburtina. Alla Eritrea è attribuito l’acrostico di Cristo ed è ricordata come annunciatrice del Giorno del Giudizio. La Sibilla Cumana, come ce la restituisce Virgilio, è l’annunciatrice della nascita di Cristo. La Tiburtina è invece rappresentata come garante della volontà divina e della giusta successione dinastica. Dal XIV secolo la figura della sibilla è stata più volte evocata a scopi politici; in questo periodo si assiste sia all’aumento del numero delle profetesse sia il proliferare delle interpretazioni dei loro oracoli ed esse sono annunciatrici di una nuova era, quella del Giudizio.
Già all’inizio del XV secolo, ma soprattutto nel XVI, l’insieme di queste sibille, ormai riconosciuto come “canone” di dodici profetesse, che trova ampia diffusione in tutta Europa, sostituendo le tre “sibille medievali”. Prova del loro successo è la propagazione di testi a stampa con rappresentazioni e raccolte di oracoli delle sibille.
Un esempio particolare della loro fortuna è l’invenzione della Sibilla Appenninica, che si differenzia dalle altre per avere una sede fissa e ben localizzabile e per la sua natura semi demoniaca. La fortuna della Sibilla Appenninca si deve principalmente al romanzo di Andrea da Barberino Le avventure di Guerrino detto il Meschino e dal Paradis de la Reine Sibylle di Antoine de la Sale. La figura della Sibilla in queste produzioni letterarie si sovrappone con i personaggi di Melusina e di Venere, diabolica tentatrice che risiede sul “Venusberg” e successivamente di Alcina, maga incantatrice dell’Ariosto, divenendo fattucchiera, seduttrice e strega. La fortuna di questa interpretazione si deve senza dubbio al fatto che l’Appennino umbro-marchigiano è in quest’epoca pregno di storie e leggende di maghi e di spregiudicati alchimisti, spesso messe in circolazione dai francescani con lo scopo di avvicinare le comunità ai monasteri. Non mancano in questi racconti le ancelle della Sibilla, le fate, che assumono così anch’esse una caratterizzazione demoniaca.
Questo modello di sibilla ha una forte influenza, viva e accesa ancora oggi, sulla cultura degli abitanti della zona (M. Polia, Tra Sant’Emidio e la Sibilla: forme del sacro e del magico nella religiosità popolare ascolana: 2004). La diffusione e le fonti delle storie della regina del Monte Sibilla sono principalmente orali e il fattore e il canale di diffusione sono i pastori e la transumanza. I pastori raccontano le storie di Barberino e di De La Sale, conoscono a memoria e sanno recitare in rima La Gerusalemme liberata e L’Orlando furioso, secondo uno schema cristallizzato nell’Appennino Tosco-emiliano dalla tradizione dei Maggi.
Anche le profezie della Sibilla, d’altra parte, venivano tramandate in versi, e precisamente in esametri, all’interno dei Sybilini. Molti vates, peraltro, ci testimonia Cicerone nel De Divinatione, cantavano, e anche Fauno, antichissima divinità agricola laziale protettrice delle greggi e abitante dei boschi, cantava profezie, come narrano tradizioni latine precedenti al poeta Ennio. Come la Sibilla, anche Fauno più tardi si moltiplicò in più figure.
Tra 1400 e 1500, il Monte Sibilla fu meta di pellegrinaggio di negromanti, scienziati, botanici letterati, avventurieri, creando preoccupazione presso le comunità ecclesiastiche della zona. Il complesso ipogeo viene descritto per la prima volta nel 1420 da Antoine de La Sale che però a causa delle frane già avvenute nell’alto medioevo all’interno della grotta, può descrivere solo la pianta dell’antro ancora intatto, un ampio spazio circolare, con dei sedili di pietra scavati nella roccia.
La prima rappresentazione del Tannhäuser di Wagner, in cui vengono raccolti i racconti del Meschino e del Paradis, attira nuovamente, nella seconda metà del XIX secolo, l’attenzione di diversi intellettuali europei; tra i primi esploratori vi sono Gaston Paris e Pio Rajna nel 1897. Pio Rajna nel 1926 con la Soprintendenza ai Beni Archeologici delle Marche conduce un sopralluogo in cui viene ritrovato un cunicolo sotterraneo. Da quegli anni in poi si susseguono diverse esplorazioni che individuano tracce di cunicoli e depositi archeologici, in gran parte cancellati da successive frane.
La spedizione più fortunata è quella del 1953, condotta da Annibaldi, Soprintendente alle Antichità delle Marche, in cui vennero recuperati diversi oggetti, tra cui una moneta francese del XVI secolo.
Altre spedizioni esplorative si sono susseguite dagli anni ’80 a oggi, senza però riportare esito positivo sulla reale esistenza di un luogo di culto, che a oggi rimane ancorato solo alle confuse fonti storiche e alla tradizione popolare. Certo è che, per la sua a posizione, posta su una linea di crinale, la grotta si trova in una posizione di confine tra potenze ctonie e potenze celesti; seguendo la logica mitografica degli antichi, questa posizione peculiare deve aver dato al luogo una connotazione sacrale e rituale. Per la sua inaccessibilità, non è luogo di comune frequentazione ma meta di pellegrinaggio per chi sfida la potenza della montagna; è un luogo, dove la paura, stato d’animo necessario per entrare in contatto con la divinità, è amplificata dalla componente della vertigine che precede il disorientamento della cavità.
Il Monte Sibilla, con la sua evocativa grotta, è luogo che raccoglie un palinsesto di racconti e tradizioni dominati dalla figura femminile della potente profetessa che si fa interprete del volere del dio, condannando alla distruzione intere comunità. Ma di quale dio si fa interprete la Sibilla?
Seguendo il racconto mitico, si arriva al Sentiero delle Fate, la faglia del Monte Vettore. Il Monte Vettore, con i suoi 2.476 metri di altitudine, è il rilievo più alto dei Sibillini e dalla sua vetta si possono scorgere il Gran Sasso a sud-est e il Terminillo a sud-ovest, rappresentando così un elemento di orientamento fondamentale della geografia degli Appennini.
Le vette montane più alte e più distinguibili rappresentano, infatti, per gli antichi un punto di riferimento nell’orizzonte non solo geografico, ma anche culturale, dal Monte Cetona ai tanti monti Termine degli Appennini (dove il significato è quello latino di terminus, confine), fino ad arrivare ai monti sacralizzati come il San Vicino nelle Marche, e alla costruzione di un vero e proprio paesaggio sacro costituito di grotte, montagne, sorgenti e valichi.
Nella sacralizzazione del paesaggio, le entità naturali possono materializzare divinità maschili e femminili; come la grotta evoca una divinità femminile, la montagna con la sua vetta sembra piuttosto materializzare una divinità maschile, come ben documentato dal radicamento presso alture e valichi del culto di Iupiter Poeninus, al Gran Sanbernardo (con precedenti già in età protostorica) e dello Iupiter Apeninus venerato al valico della Scheggia nell’Appenino umbro e, aggiungeremmo, del probabile luogo di culto da cui proviene il bronzetto italico di Appennino, sui monti Sibillini. Anche questo Iupiter, secondo le fonti letterarie, era titolare di un oracolo tramite sortes.
Il valico è simbolo del transito attraverso itinerari montani e rappresenta quindi il luogo ove si concretizza la sacralità della montagna. Iupiter Poeninus, o Apeninus, sacralizza la montagna e la sua vetta; come ipostasi di Iupiter optimus Maximus, è però, certamente, collegato anche ai fenomeni naturali che il padre degli dei evoca, ovvero i fulmini. E se un fulmine, anticipato da un tuono, cadeva sulla terra, la scuoteva come un rombo. La divinità, quindi, in alta montagna, poteva essere legata anche al rombo e allo scuotimento del terreno provocati dai terremoti.
Il lago di Pilato, a 1.941 metri di quota sulle pendici nord del monte Vettore, nella conca naturale abbracciata dall’arco montuoso, prospiciente la cima del Redentore e il Monte Sibilla è un altro luogo legato alla leggenda delle fate; qui, si radunavano per il pediluvio e per riposare gli zoccoli stanchi dalle peregrinazioni sulle rupi scoscese.
Secondo de La Sale, il lago prende il nome dalla tradizione, tramandata dagli abitanti di Norcia, secondo la quale l’imperatore Tito Vespasiano, dopo aver dato alle fiamme la città di Gerusalemme, convocò Pilato, ormai vecchio, per accusarlo di non aver impedito la morte del Redentore. Pilato, condannato a morte, come ultimo desiderio, chiese che il suo corpo fosse deposto in un carro trainato da quattro bufali e lasciato andare ove lo avessero trasportato gli animali, che s’inabissarono nel piccolo lago. Per gli abitanti del luogo, il lago ha dunque una connotazione sinistra che lo accosta alle rappresentazioni ancestrali del Tartaro, dove vennero scaraventati a testa in giù i sovvertitori del volere e dell’ordine divino. La posizione in un qualche modo incongruente del Lago, “ai confini della terra” ma contemporaneamente “come al di sotto di questa”, ricorda le più antiche descrizioni del Tartaro. Altra peculiarità che non sarà sicuramente sfuggita a naturalisti e alchimisti è la presenza nelle acque del piccolo crostaceo Chirocefalo del Marchesoni.che ha la caratteristica di nuotare con la superficie ventrale del corpo rivolta verso l’alto, amplificando così la stranezza del luogo.
Il lago diviene a partire almeno dal Medioevo luogo prescelto per maghi e alchimisti e teatro di Sabba notturni. Diversi sono i racconti che descrivono il lago come popolato da creature demoniache, tra queste le fate. Le fate, dunque, anche in virtù del piede caprino, simbolo demoniaco per eccellenza, si colorano di una sfumatura malvagia in questi racconti e leggende, rivelando ancora una volta una natura duplice e ambigua.
Altra tappa del sentiero delle fate è Pretare. Qui il paesaggio è caratterizzato dalla presenza di rocce rotolate a valle dal Vettore, a causa di una frana o di un terremoto di molti secoli fa, dove secondo la tradizione c’era un paese chiamato Colfiorito, protetto dalle Fate. La Regina Sibilla, adirata con gli abitanti del luogo rei di egoismo, aveva scatenato un violento terremoto che aveva sepolto Colfiorito sotto un grosso mucchio di pietre. Solo dopo che un popolo nomade vi si fu stanziato, le Fate tornarono a proteggere quel luogo, che da allora si chiamò Pretare ed ebbe una fata a protezione di ogni casa. Il racconto popolare ci fornisce però tre elementi di rilievo per la lettura del mito: innanzitutto è la Sibilla che scatena i terremoti, in secondo luogo il terremoto diviene strumento della punizione per l’inosservanza alle leggi e ai messaggi divini e infine viene ribadito il ruolo protettivo delle fate sulle popolazioni nomadi/transumanti.
A Pretare, ancora oggi, il giorno di San Rocco, viene rievocato l’evento con la discesa delle Fate in paese.
Le fate hanno contatti con il mondo umano ma contemporaneamente sono poste a protezione dei luoghi sacri, normalmente interdetti agli uomini. Sono veicoli di comunicazione tra le potenze naturali e la civiltà e questa posizione di liminalità si esprime soprattutto nel piede caprino, simbolo dell’appartenenza al mondo selvaggio. Il tratto ferino delle fate, condiviso con sciamani e streghe, le colloca in diretto contatto con gli elementi naturali e dona loro la capacità di presentire e presagire eventi e catastrofi naturali.
Dalla tradizione emergono diversi contatti con le comunità del luogo. Le fate proteggono i luoghi e le comunità e si prendono cura degli animali e del benessere degli abitanti, aiutando i raccolti e insegnando l’arte della tessitura a figlie e mogli dei pastori. Contemporaneamente, ballano con i pastori il salterello nelle notti di plenilunio; lo scenario evocato e la struttura del ballo, con il suo ritmo incalzante e la sua struttura coreografica a più parti, rimanda per certi tratti al coribantismo e al dionisismo di certe cerimonie collettive di esorcismo o di possessione liturgica, (E. De Martino, La terra del rimorso, 1961; G. M. Gala, A passo lento l’Italia entrò in ballo. Dai balli locali alle identificazioni nazionali: andata e ritorno, 2013).
Lo scenario del mito delle fate è luogo fragile e liminale, a diretto contatto con le potenze della natura e degli dei e le loro manifestazioni tragiche e traumatiche. È evidente da quanto detto quanto il paesaggio sia una realtà complessa, tanto nella genesi nei tanti secoli di presenza umana che lo ha modificato adattando il territorio alle proprie esigenze, quanto nella possibilità e capacità che abbiamo oggi di comprenderlo e coglierne la ricchezza. La conservazione e tutela di questo patrimonio è una attività complessa che non può non tenere in considerazione la genesi, la stratificazione e anche la ricchezza dei punti di vista, tra i quali quelli degli abitanti, degli oriundi e dei visitatori. Il terremoto ha interessato nel 2016 queste aree già in forte trasformazione perché lo spopolamento rischia di affievolire il già precario legame tra abitanti e territorio mentre una riflessione critica su quanto è accaduto e sta avvenendo non è ancora stata avviata. Si può solo affermare che una ricostruzione che parta solo dalle case e non consideri le città, il paesaggio e le comunità è una ricostruzione che difficilmente porterà risultati accettabili.
Pubblicato il 06/08/2018